Il vino di Poseidone

Tesori enologici sommersi

Nelle profondità del mare, mitologico dominio del potente Poseidone, si incontrano due diverse ed opposte realtà che hanno attinenza con il mondo del vino: il tesoro sommerso, e che chiede di riemergere, a seguito di scoperte entusiasmanti frutto di fortunate ispezioni subacquee,  di migliaia di anfore vinarie, che da millenni giacciono sui fondali, testimonianze di viaggi perigliosi, naufragi e scambi commerciali e la contemporanea, sperimentale pratica enologica e di marketing da parte di originali e innovativi  produttori che consiste nell’immergere nelle profondità marine selezionate bottiglie ingabbiate in contenitori metallici o ricoverate in anfore predisposte appositamente  e collocate tra relitti oin caverne naturali.

La tendenza attuale, underwaterwines, ossia l’esperienza delle cantine sottomarine,come indica l’interessante indagine del Sole 24 ore,coinvolge una trentina circa di produttori in tutte le parti del mondo, dal Cile all’Australia, dalla Croazia all’Italia, impegnati a proporre a collezionisti e alla propria selezionata clientela bottiglie che al termine del soggiorno sottomarino emergono ricoperte da stupefacenti e variegate incrostazioni, dipinte dalla salsedine, scolpite da piccoli  conglomerati corallini. In alcuni casi i produttori immergono orci di terracotta, inonore della tecnica di conservazione antica, da cui emergono recipienti di insolita affascinante e naturale attrattiva, conchiglie incastonate, singole e uniche opere d’arte.

Si parla, per questa tecnica di affinamento, di “meroir” , corrispondente marino di “terroir”, gloriosa espressione con cui si intende la sintesi di terra, ambiente clima e opera dell’uomo.

Oltre all’aspetto di puro marketing, si affianca il corollario sperimentale: come reagisce il vino sottoposto ad assenza di luce,  alla pressione, al gioco delle correnti? I degustatori affermano che le trasformazioni organolettiche sono evidenti: intanto i filtri applicati alle bottiglie ben proteggono il tappo di sughero che consente al vino la microtraspirazione, scambio tra ossigeno e bevanda, anche in quelle condizioni così estreme  ed ogni tipologia assume caratteri distinti: gli spumanti affinano la grana delle bollicine, i vini rossi tra cui Cabernet o Sangiovese, dimostrano migliore avvolgenza e morbidezza, i bianchi più delicati conservano intatte le fragranze e la delicatezza del frutto. Può accadere, secondo l’esempio di un’azienda leader in questa pratica all’isola d’Elba, che le stesse uve siano immerse per alcuni giorni in mare così da arricchirsi di salsedine e consentire di fare a meno della solfitazione nelle ulteriori fasi di lavorazione.

In Italia le prime esperienze sono partite  da una decina di anni e coinvolgono cantine a Ravenna, all’isola d’Elba, ad Alghero e a Sestri levante. In Croazia, uno dei produttori più attivi in questa tipologia di affinamento mantiene per 700 giorni le bottiglie ciascuna all’interno di anfore di terracotta dove nel silenzio, in assenza di luce e sotto l’azione di condizioni così speciali evolvono pare con ottimi risultati.

Accanto alle nuove cantine, alleate della tecnologia più raffinata che invertono e  sfidano il millenario percorso di conservazione e affinamento del vino, ecco i giacimenti di anfore vinarie, l’una accanto all’altra sui fondali e che avrebbero dovuto, per le stesse ragioni di mercato, essere sbarcate   in vista della loro commercializzazione.

Sono anfore greche e romane che il Mediterraneo periodicamente restituisce, ma anche più antiche, fenicie e cretesi. Erano contenitori in argilla di forma affusolata, munite di anse come punto di presa per il trasporto e lo svuotamento e terminavano con un puntale.  Il fondo a punta consentiva di essere infilato nella sabbia che stava sul fondo della stiva della nave così da essere impilato con altre anfore. Le pareti avevano notevole spessore onde evitare danneggiamenti, quelle esterne a volte erano ricoperte da un ulteriore strato di argilla, le pareti interne venivano “impeciate” ossia trattare con resine impermeabilizzanti tali da evitare l’evaporazione e stabilizzare il contenuto aromatizzandolo. Il collo allungato e ristretto terminava con un orlo ingrossato per facilitare la chiusura ermetica che  era rappresentata, nella versione più semplice, da pigne verdi pressate nel collo, nei casi di contenuti più pregiati si impiegava un piccolo vaso di ceramica all’interno del collo,munito di apposita scanalatura e ricoperto da pozzolana, sorta di malta tufacea, o ancora un tappo di sughero  sigillato con pece.

Le anfore erano contrassegnate da graffiti ( titulipicti) che registravano dati sui possessori, sul peso,  sul contenuto , sull’origine: una tracciabilità ante litteram. A partire dal IV sec a.c. comparvero anche data di produzione e città di provenienza, che attestava la qualità di particolari aree vinicole di eccellenza, a Rodi ad esempio sulle anfore si apponeva emblematicamente una rosa.

Dall’analisi dei relitti delle navi mercantili è possibile stabilire la capacità di trasporto:  una nave mercantile romana di 20 metri poteva trasportare da 1500 a 2000 anfore posizionate sui puntali infitti nella sabbia, mentre le file superiori si posavano sugli spazi lasciati scoperti da quelle inferiori, una sopra l’altra, Gli spazi erano poi riempiti da paglia per rendere la massa compatta e omogenea.

Un esempio di trasporto su nave oneraria romana è rappresentato dal relitto della nave romana di Albenga, in Liguria,  il più famoso tra quelli scoperti nel Mediterraneo occidentale, che si trova a un miglio dalla costa a 42 metri di profondità di fronte all’isola di Gallinara, dinanzi ad Albenga. I materiali recuperati a seguito di ben tredici campagne di scavo subacqueo, e legate alla passione dell’archeologo e studioso di storia romana Nino Lamboglia, hanno restituito un centinaio di anfore contenenti vino proveniente dalla Campania e destinato ai mercati della Francia meridionale e della Spagna, oggi esposte nellocale Museo Navale Romano istituito dallo studioso nella propria città, ma è stato accertato che il carico corrispondesse ad oltre 10.000 anfore e quindi ad una portata di 450 /500 tonnellate. Il naufragio avvenne tra il 100 e il 90 a,c nel periodo che corrisponde alla concessione del diritto latino alle popolazioni liguri.

Quali vini trasportavano le anfore vinarie?  I vini greci erano classificati in base al colore: bianchi, neri e mogano;  per  potenziare i profumi erano impiegati diversi tipi di fiori e per ottenere il sapore addolcito era previsto l’appassimento delle uve al sole. La difficile conservazione fu in parte risolta dall’aggiunta di resina,cosicchè ancor oggi uno dei vini più conosciuti e apprezzati in Grecia è appunto il Retsina, addizionato di resine di pino.

Le zone di produzione eccellenti erano varie, soprattutto insulari, ma pregiate erano altresì le produzioni delle coste della Tracia, come il vino di Maronea; c’erano i vini di Taso, di Chio, di Lesbo, di Cipro, erano vini densi, provenienti da vendemmie tardive su tralcio o da vero e proprio appassimento delle uve,  spesso addizionati di spezie, miele, resine ed altri aromi che garantivano insieme all’elevata alcolicità, stabilità contro le ossidazioni e inalterabilità nel corso dei lunghi viaggi. Ottimi erano considerato il Biblio , il Lesbio dall’isola omonima, l’Ismarocitato da Omero, il Pramnio, rosso di corpo descritto di eccelsa qualità, proveniente forse da Pramnios nell’attuale Turchia,  un Doc per aristocratici palati.

Tra i vini commercializzati da Roma occorre distinguere tra le produzioni dozzinali, addizionate con sale, acqua marina, resine e gesso come conservanti, e le produzioni di pregio: i più strutturati erano arricchiti di mosto concentrato che garantiva un innalzamento della gradazione alcolica e una maggiore resistenza in vista della conservazione.  Spesso nel corso della fermentazione venivano aggiunti estratti di spezie, aromi, erbe, così da garantire una grande varietà di vini aromatizzati. Alcuni, tra i  più famosi e stimati, i cui pregi furono cantati dai maggiori poeti e dagli esperti di viticoltura di allora, Columella, Plinio il vecchio, Virgilio, provenivano dalla Campania: l’Ellenico, attuale Aglianico eccellente varietà longeva e di gran classe, il Falerno, ancor oggi espressione della  doc Falerno del Massico, il Cecubo amato da Augustoe condiviso, invecchiato il giusto, da Orazio con Mecenate, el’Albano, proveniente dall’area degli attuali Castelli Romani.

Ci piace immaginare che in fondo al mare Poseidone, e il suo corteo di Nereidi, possa decidere di sorseggiare l’uno o l’altro di questi nettari: l’arcaico e l’innovativo, non dovendo più invidiare l’ambrosia del fratello Zeus tra le nebbie dell’Olimpo né le scorribande di Dioniso con menadi e satiri all’ombra di pergolati ombrosi e paesaggi vitati.

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Madame Reali: cultura e potere da Parigi a Torino

Cristina di Francia e Giovanna Battista di Savoia Nemours

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La mostra di Palazzo Madama, curata dalle conservatrici del Museo Clelia Arnaldi di Balme e Paola Ruffino, e visitabile dal 20 dicembre 2018 al 6 maggio 2019, rappresenta come sottolineato dall’assessora alla cultura del Comune di Torino Francesca Leon “E’ la più importante mostra dell’anno per dimensioni e contenuti e per le relazioni che ha portato con sé, consolidandole”.
I legami tra Francia e Torino consolidatesi nel corso di un secolo dal 1619 al 1724 rivivono in questo allestimento, rafforzando gli attuali scambi culturali tra Piemonte e la Francia come sottolineato dal Console Generale di Francia a Milano Cyrille Rogeau, grazie alla memoria di due figure femminili di grande personalità, impegnate nella loro vicenda esistenziale ad affrontare problematiche di carattere politico, intrighi di corte e azioni a salvaguardia e tutela delle popolazioni loro soggette, nonché a dare avvio ad opere di ampliamento della Torino secentesca con edifici che ancora oggi sono vanto della nostra città. Entrambe le dame sono poi accomunate dall’intento di trasferire alla corte sabauda il gusto, la raffinatezza e l’esprit caratteristico del bon vivre della nobiltà francese e da una comune sorte familiare, essendo ambedue reggenti per i rispettivi figli in età minore. Al termine della loro vita, entrambe, devote e munifiche nei confronti degli ordini monastici del ducato, si ritirano in convento.
La vicenda di Cristina di Francia, figlia del re di Francia Enrico IV di Borbone e di Maria de’ Medici, prende avvio nel 1619 allorchè tredicenne giunge da Parigi a Torino sposa di Vittorio Amedeo I di Savoia. Rimasta vedova nel 1637, Cristina assume la reggenza per il figlio minorenne Carlo Emanuele e si scontra con i Principi suoi cognati, Maurizio e Tommaso di Savoia-Carignano, sostenitori degli Spagnoli. La guerra civile si protrae fino al 1642, quando l’accordo fra la duchessa e i cognati è concluso col matrimonio della figlia Ludovica con lo zio, il Cardinal Maurizio. Cristina riesce a mantenere l’indipendenza del Ducato e del proprio potere, che cede formalmente al figlio nel 1648 pur continuando di fatto a governare fino alla morte nel 1663.
A Torino si dedica, con la collaborazione del Conte Filippo di Agliè, all’ampliamento e arredo di due residenze extraurbane: il castello del Valentino e la Vigna nota ora come Villa Abegg.
Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours, nipote di Enrica IV e dama di corte della regina di Francia, lascia nel 1665 la reggia di Luigi XIV, il Re Sole, per diventare duchessa di Savoia. Vedova dal 1675, regge il ducato fino al 1684, quando il figlio Vittorio Amedeo II assume d’autorità il potere. Nel periodo in cui governa si trova a fronteggiare la povertà causata in Piemonte dalle grandi carestie degli anni 1677-1680 e, per aiutare i più bisognosi, istituisce un Monte di prestito e fonda anche l’ospedale di San Giovanni Battista nell’area di espansione orientale della città. Promuove inoltre la nascita dell’Accademia di Belle Arti di Torino e per la sua residenza, Palazzo Madama, invita nel 1718 l’architetto messinese Filippo Juvarra a realizzare il grandioso scalone d’onore di Palazzo Madama, capolavoro assoluto del Barocco europeo.
“Donne di potere, ma anche di dovere” dunque, come ha sottolineato nel suo intervento Maurizio Cibrario, Presidente della Fondazione Torino Musei che “seppero trasferire la grandeur parigina sulle rive del Po.”

Il percorso espositivo, curato dall’architetto Loredana Jacopino, si snoda in dieci sale e usufruisce di prestiti da alcuni tra i principali musei europei, dalla Galleria degli Uffizi al Museo del Castello di Versailles, dal Museo del Prado ai Musei Reali di Torino.
Nel corso della visita che offre oltre 120 opere tra dipinti e oggetti d’arredo, di devozione, di uso privato, veniamo a conoscere volti e raffigurazioni non solo delle due duchesse, splendidamente abbigliate nelle pose della manifestazione della loro autorità, ma volti dei personaggi coevi che condivisero con loro vita politica, sentimenti, fasto e potere.

Conversazione a Vinitaly 2018 con Isabella Bisol

L’esperienza della storica Cantina Ruggeri

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Nel mare di bollicine che qualifica la nostra produzione nazionale orientata in particolar modo all’export, spiccano nel panorama di Vinitaly alcune aziende storiche della produzione di Prosecco che hanno fatto grande l’esperienza della spumantizzazione nazionale e che hanno conservato il livello qualitativo delle origini.
L’azienda Ruggeri, fondata nel 1950 da Giustino Bisol, autentico “patriarca” e figura ancora partecipe della conduzione aziendale, è oggi condotta da papà Paolo e dai figli Giustino e Isabella e rappresenta un esempio di continuità della tradizione secondo i più attenti dettami delle regole di produzione di Prosecco di altissima qualità a partire dai 17 ettari di proprietà e dalle uve provenienti da 110 piccoli conferitori insediati nelle migliori zone della Valdobbiadene. I vigneti di famiglia sono disposti in piccoli appezzamenti caratterizzati da pendenze talmente ripide da esigere operazioni di raccolta e di allevamento rigorosamente manuali, tanto da far parlare di viticoltura “eroica” in Valdobbiadene. Non stupisce quindi che anche nel 2018 il Gambero Rosso abbia accordato al Giustino B., etichetta in onore del fondatore dell’azienda, i tre bicchieri e che l’azienda sia l’unica a poter vantare per ben nove anni il riconoscimento di azienda premiata.
Cuore autentico della Ruggeri, sottolinea Isabella Bisol, è il rapporto con i propri conferitori di uva legati all’azienda da un rapporto di fiducia che perdura in taluni casi da oltre 50 anni. A dimostrazione di questo forte legame , l’azienda Ruggeri è l’ultima cantina a confermare ancor oggi “sull’onore” i prezzi delle uve dopo la vendemmia: un codice che rispetta i legami ancestrali, profondi, che ciascun viticultore ha con la propria terra e con la famiglia e che mantiene vivo il significato di un concetto quale la fiducia tra componenti di una comunità. L’esempio emblematico della passione che lega la famiglia Bisol con chi opera da sempre in quelle colline è rappresentato dall’etichetta Vecchie viti: selezionata produzione da vitigni componenti del blend finale, Glera, Perera, Bianchetta, Verdiso, da vigne di oltre 80 anni, grazie ad un’operazione che si avvale della costante mappatura agronomica delle aree più vocate e della vendemmia separata delle uve dei 12 conferitori per il prodotto finale. La sfida che il papà Paolo porta avanti in tutti questi anni è l’inesausta volontà di ricerca, studio, selezione, ciò che consente alla Ruggeri di mantenere negli anni l’elevata costante qualità – dalla vendemmia ogni anno metà della produzione, quella migliore, concorre alla gamma aziendale, l’altra metà viene venduta- e di proporre, come anticipa con giusto orgoglio Isabella, una autentica novità che sarà presentata entro fine anno, frutto proprio di questa attitudine alla ricerca,: un Prosecco in purezza con 5 anni di permanenza in autoclave.

Isabella e Paolo Bisol _a

L’aver saputo mantenere elevato e costante il livello qualitativo, anche successivamente al passaggio di proprietà dell’azienda, è uno dei fattori di riconoscimento dell’impegno aziendale della famiglia e di fidelizzazione del mercato che, nel caso della Ruggeri, è quello della ristorazione e delle enoteche, con un dato percentuale di ben il 40% in Italia e il restante 60% nei 48 mercati esteri, in primo luogo l’Inghilterra.
La punta di diamante nella gamma produttiva è certamente il pluripremiato Giustino B., da sole uve Prosecco (Glera) con lungo affinamento sui lieviti e dall’esaltante fragranza del bouquet, ma l’apporto professionale, come sottolinea Isabella Bisol, si traduce nello stile personale che si vuole confermare di anno in anno a tutti i vini della gamma, da Vecchie viti, a Giall’oro e al Cartizze dry : tutti spumanti con lunghe potenzialità di invecchiamento frutto dei presupposti di una indiscutibilmente seria conduzione di cantina.
Vinitaly dunque come ogni anno consente all’azienda Ruggeri – sintetizza Isabella -di proporsi come spazio aperto non solo al contatto con i buyer e gli operatori di settore, ma come coinvolgente appuntamento con il consumatore finale, sempre più esigente, competente e alla ricerca della qualità.

Maria Luisa Alberico
Donna Sommelier Europa